Per anni il buon compagno Mao se n’è andato in giro a sostenere che la rivoluzione, qualunque essa sia, non puo’ e non deve essere un pranzo di gala. A maggior ragione, dunque, il cinema – quello vero – non può e non deve essere in alcun modo accomodante. Una lezione che certo Matthew Holness sembra aver assorbito più che egregiamente, almeno stando a quanto ci dimostra quel visionario, grottesco e inquietantissimo oggetto cinematografico di Possum, un esordio al lungometraggio fra i più folgoranti e potenti del panorama indie contemporaneo all’ombra di Sua Maestà Elisabetta II d’Inghilterra. Parlarne è cosa davvero ardua, sia per la natura indecifrabile ed enigmatica di questo thriller psicologico dalle forti venature orrorifiche, che per l’evidente impianto surrealista. Uno schizzatissimo e problematico burattinaio di nome Philip (un Sean Harris da brividi) si trova a dover affrontare gli oscuri fantasmi del proprio tormentato passato, i quali portano le evidenti tracce lasciate da un malevolo patrigno (un laidissimo Alun Armstrong) e da un’inquietante entità di nome Possum, personificata nelle mostruose fattezze di un pupazzo ragniforme tenuto perennemente rinchiuso in una borsa da viaggio. Da qui ha inizio un autentico delirio visivo e sonoro attraverso il quale l’identificazione dello spettatore con la tormentata mente del protagonista si fa via via sempre più serrata, impedendo in ogni modo di distinguere chiaramente la realtà dalle visioni più incubotiche e deliranti.